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Claudio Guarda, Presentazione della mostra fotografica di Edgardo Gandolfi

Un ricordo di Edgardo Gandolfi attraverso le sue opere. di Claudio Guarda – Presentazione della mostra alla Casa Rotonda, 19.4.2015

“Fotografare e dipingere sono sempre anche una maniera dì farsi l’autoritratto”: così scrivevo anni fa ad Edgardo Gandolfi, Dado per gli amici, a commento di una sua esposizione nello Spaziophotografica, dove accanto a fotografie dei momento comparivano pure, per fa prima vofta, una serie di pastelli grassi e disegni degli anni ’70-’80 non mai esposti in precedenza. Messi cosi vicini, por nella diversità delle tecniche e nella distanza temporale, mi sembrava che tra di toro corresse una stessa linfa, ne venisse fuori una sostanziale affinità di sguardo e di approccio af mondo, dentro una sensibilità che era tipicamente sua: in questo senso, autoritratto. Ma al tempo stesso, nel far riemergere quelle carte, sentivo che operava in me il bisogno di ritornare sui propri passi e di riprendere il filo di un discorso lasciato interrotto, dì ricongiungersi e riattivare quel passato di pittore così da delineare un’immagine più articolata dei suoi differenziati interessi artistici nel corso degli anni: quasi volesse portare il tutto a unità e sintesL In realtà la sintesi più vera – per chi voglia tentare di dame un sia pure rapido ritratto – era il suo amore per la vita e per il bello, anche se la vita e il bello qualche volta gli sono costati sforzi non comuni. l’amore, la vita, la musica, la natura, il cinema, la poesia, il design, l’eleganza e la raffinatezza non mai ordinaria, l’innata cortesia e disponibilità: erano questi i tratti distintivi più evidenti di Edgardo. Il quale era nato come fotografo nell’estate del 1973, a Peschici. davanti all’azzurro del mare Ionio. Ma già fin dagli esordi, più che la bellezza del paesaggio naturale era quello urbanizzato ed antropologico ad intrigarlo, specie là dove, tra le pieghe deIl’immagine, egli sentiva dì poter immettere il senso di un’attesa, la percezione del tempo sospeso o di un’azione lasciata a metà: in altre parole la sensazione di una temporalità che va oltre l’istante fissato dal mezzo fotografIco ed implica qualcosa di più profondo, sfuggente o a venire. In embrione c’era già tutta fa sua futura ricerca di fotografo. Erano gli anni in cui aveva deciso di fare il salto e di iscriversi aH’Accademia di Brera per seguire i corsi di pittura e fotografia. Se le cose fossero andate per ff verso giusto (in effetti si laureerà ne’ 1977 con una tesi sullo scultore Giovanni Genucchi). avrebbe insegnato educazione visiva e contemporaneamente tentato la strada dell’arte. È così sarà, tanto che accanto a piccoli oli, chine e pastelli, nascono pure le prime serie fotografiche come “Metamorfosi, la fine di un mito”. del 1979, dove è evidente l’intenzione di dare un preciso indirizzo al proprio lavoro. Si tratta infatti del suo primo ciclo avente per soggetto vecchie auto abbandonate. Ma il modo in cui le coglie e rappresenta, lasciate deperire ai margini dì una strada o sotto una tettoia, senza più nemmeno le ruote, in uno stato di progressiva decomposizione, intaccate già dalla ruggine e dalla sfacelo, fa subito percepire che il mito – un poco anche trasgressivo – delta libertà e dell’indipendenza, dell’avventura hippy, della grande traversata, si è irrimediabilmente concluso. Finiti, per sempre, i tempi magnifici e ingannevoli dell’illusione, di un’eterna giovinezza! Ecco: ad interessarlo, fin da allora, è l’ideazione di cicli omogenei caratterizzati non solo da coerenza linguistica e da unità tematica, ma anche di pensiero: tali insomma da lasciar trapelare, attraverso le immagini, una certa visione del mondo o dell’uomo che lo abita. Più libera e poetica, al confronto, la pittura di quegli stessi anni costituita per lo più da piccoli pastelli incentrati sul paesaggio rurale: alberi, campi, poggi vignati, colline con cascinali e case lontane dove a interessarlo è soprattutto la vaporosità del colore e la morbidità del disegno. Ci si risente dentro un’eco della pittura impressionista, con rimandi che vanno da Monet e Renoir ai più costruttivo Cézanne. Più che spunti tratti dal vero, si tratta di atmosfere ricercate e calate nell’invenzione del paesaggio: dentro i colori freddi dell’inverno o in quelli caldi dell’estate. Gli azzurri, i rossi ed ì gialli raramente sono usati allo stato puro; generalmente si incrociano e tagliano con i loro secondari di rosa, verdi e violacei in passaggi non mai secchi o squillanti: è sempre invece un trapassare di forme e colori, uno svariare di toni, rudi e freschi. In questo senso la pittura si integrava, ma in maniera alternativa e complementare, alla fotografia dove il soggetto viene per forza di cose colto all’esterno e poi risolto nel contrappunto del bianco-nero. Si tratta però di una pittura che, dopo anni di continuità, si interrompe bruscamente nei 1983 per ritornare poi fuori, come sgorgasse a fIotti, su distanze decennali, mantenendo pur sempre lo stesso riferimento paesaggistico. Una prima volta negli anni 1994-95, quando quegli stessi soggetti ricompaiono in piccole tempere di pari luminosità e freschezza, ma in una resa più libera e astratta, quasi informale e pertanto anche assai meno figurativa affidata com’è al colpo di pennello che di volta in volte lascia una traccia, pone un segno, una nota cromatica; una seconda ed ultima volta negli anni 2004-05 in una serie di piccole chine in cui il colore scompare e quello stesso paesaggio dentro cui a volte si intravede anche il richiamo alla figura umana – viene fissato come in filigrana ed in bilico nei suoi tratti essenziali, quasi scorporato e dissolto dentro un intrico di linee e di macchie più o meno forti, più solide e grosse o più sottili e nervose. La pausa di decennale silenzio – travagliata anche da gravi problemi dì saluti – che segna la pittura dopo il 1983, la si ritrova anche nella fotografia: la quale ritorna prepotentemente viva nei primi anni Novanta e costituirà poi la sua attività artistica quasi esclusiva. Il tempo non è comunque passato invano: osservando “Pietre del tempo, spazi architettonici’ e “Oltre la chiesa”, due nuovi cicli del 1993, ci si rende presto conto che Gandolfi ha fortemente compattato l’intensità espressiva delle immagini, accentuandone l’impianto costruttivo, il sistema di linee e di contrappunti chiaroscurali. Ciò che conferisce loro un inusitato senso di solidità e rigore, ma anche di silenzio e mistero. Soprattutto si percepisce che, nel frattempo, ha definitivamente messo a fuoco una sua propria poetica, detta della “Metafisica”, tesa cioè ad andare oltre le apparenze dell’immediatamente visibile, a calare nell’immagine fascini ed inquietudini dell’esistere, l’enigma del tempo: quando le cose – scriveva Montale – sembrano sul punto di sfaldarsi e rivelare ii loro ultimo segreto. Che resta però ineffabile. A questo punto anche le rive normalmente ciarliere e amene del lago Ceresio o Maggiore sembrano cambiar natura tanto in “Partenze … ed oltre”, del 1994, quanto in “Presenze lacustri”, del 2001: di colpo tutto si fa tacito e diserto, tra ombre lunghe ed inusitati indugi, rari passanti e tagli in controluce. È come se per un attimo, ai margini del giorno, nella luce fredda del mattino o in quella tarda del tramonto, anche i luoghi a noi più familiari ci sorprendessero svelandoci una dimensione ulteriore e sfuggente, nascosta dietro le pieghe del quotidiano. In tutte le sue fotografie e cicli a seguire si percepirà questo sguardo che interroga il mondo. l’uomo, il mistero della vita e della morte. Se è pur vero che in essi l’uomo non è mai protagonista, anzi è raramente raffigurato come entità fisica, la sua presenza morale è comunque avvertibile tanto nei soggetti scelti, già di per se stessi fortemente connotati (la casa, il palazzo o il castello, la chiesa, la tomba, la memoria, i monumento ecc), quanto nell’elaborazione formale della fotografia giocata su contrappunti non solo prospettici e chiaroscurali, ma anche simbolici: il bianco e il nero, la luce e l’ombra, il moto e la stasi, l’insostenibile gravame dei piedi che non si staccano da terra e la libertà del cielo dove si agitano nuvole arruffate, cariche di luce ed impalpabile leggerezza. Realtà e sogno, inquietudini ed attese, calma piatta e sentimenti convulsi vi si agitano dentro. La fotografia fissa la realtà del mondo, ma l’immagine non si risolve mai solo in se stessa, si fa invece allusione, inglobando implicazioni e rimandi più vasti e soggettivi. Sguardi, stupori o scoperte che sembrano trapelare dal visibile; colti quando il mondo, la vita, le cose ci sorprendono, come a tradimento, nel punto lasciato scoperto, per dirci tutta la foro estraneità e lontananza. Come tutti i veri fotografi, Gandolfi ci stupisce perché ci fa vedere con occhi nuovi quanto ci circonda, quanto da sempre cade sotto il nostro sguardo ma non avevamo mai visto così. AI tempo stesso ci dà però anche la prova di come la perizia tecnica sia parte sostanziale e fondante della forza evocativa, e quindi anche- del messaggio, calato nella immagine: il rigore tecnico-compositivo, la connaturata capacità di cogliere l’angolatura e il taglio di luce giusti, la “messa in bolla”. come diceva lui. E il relazionarsi di tutte le linee; per non dire della curatissima tecnica di stampa, con punte di bianco e nero alla loro massima intensità ma poi graduate in tutta la gamma dei grigi intermedi. Aleggia una melanconia di fondo dentro le sue fotografie, coincidente spesso con una perdita di funzione, di stato o di senso. Lo si veda nella serie dedicata a “L’isola del Silenzio”, del 1995, dove le grandi stanze del superbo palazzo borromaico sull’Isola Bella; persa la loro antica funzione, vivono oggi di luce riflessa esibendo al turista di passo le loro preziose spoglie, ma dentro un silenzio innaturale. In “Evocazioni metafisiche», pure del ’95, il rovesciamento è ancor più forte dato che il mondo degli umani si ribalta in quello dei morti, o meglio, il mondo degli umani è come osservato da una prospettiva postuma, da un oltretomba lontano. Ci si sente dentro il sapore di una bellezza in via di sfacimento o già disfatta, come in certe atmosfere dannunziane, dove a dominare è una simbiosi inestricabile tra vita e morte. II richiamo costante al tema della morte, non conclude però in una visione di morte definitiva: semmai di trasformazione e rinascita come ben evidenzia anche l’ultimo suo ciclo “Die terasse” del 2008. tutto incentrato sullo stato di degrado e abbandono dell’antico sanatorio di Agra. In una catena senza fine, ciò che viene abbandonato dagli uni viene ripreso e occupato da altri; oppure ritorna alla natura come le grosse auto o i vecchi muri invasi ora da muschi ed erbe, arbusti e piante che avanzano, invadono, sfaldano, sommergono: in un eterno fluire che si consuma ogni momento sotto i nostri occhi. Questo chiedeva Edgardo Gandolfi alla sua fotografia: di saper fissare e poi restituire, per la frazione di un attimo, il sentimento oscuro del vivere, l’intensità di una rivelazione, la percezione dell’indicibile dentro cui convergono sguardi, memorie, sentimenti, emozioni, musica e parole. Proprio la musica delle parole diventerà il centro catalizzatore delle sue attenzioni nell’ultimo decennio dì vita. Egli scopre la sua vena poetica, tutto sommato improvvisa e in età non più giovane, nel pieno di dolorose esperienze. È questa la ragione sostanziale per cui, in genere, i suoi versi risultano segnati dalla sofferta cognizione del dolore. Perché da lì sono zampillate la sorgente musicale del verso e l’allusività enigmatica dell’immagine. Quel senso di mistero, di interrogativo gravante sul mondo, dentro le pieghe degli eventi o delle cose, che caratterizzava la fotografia di Gandolfi, lo si ritrova, infatti, anche dentro la sua poesia, nel modo in cui guarda, osserva e interroga la natura, ne ascolta la voce del silenzio, la profondità degli spazi in una notte stellata ma per cercarvi un’eco di risposta alle sue domande, alle aspettative che si porta dentro. Paesaggio interiore e paesaggio esteriore cercano così un accordo, sia pure momentaneo: il superamento di un dissidio nella attesa di una consonanza all’unisono. Dietro questo suo modo di essere e di sentire, c’è un filo di ascendenza chiaramente neoromantica, in linea con le sue predilezioni in ambito musicale, coincidenti con il repertorio sinfonico, pianistico e poetico del grande Romanticismo: luoghi insuperabili della dimensione spirituale e contemplativa, carichi come sono di accenti e paesaggi interiori, di un bisogno di infinito – e di amore. Da qui anche la configurazione formale – tutto sommato ancora lineare e classica – delle sue poesie che rifuggono dalla disarticolazione discorsiva e dalla decontestualizzazione spazio-temporale del moderno, per affidarsi invece alla evocazione ritmico-musicale del verso, alla teofania dell’immagine metaforica, alla accelerazione del moto o degli .spostamenti, alla personificazione degli elementi di natura con i quali dialoga, in un soliloquio che vorrebbe essere colloquio. Sono solo alcuni dei procedimenti stilistici e formali più ricorrenti nella poesia di Gandolfi, ma rivelatori dell’urgenza che la anima e attraversa: legare i due opposti poli del vivere con tutte le loro spine, il dentro e il fuori, il qui e il là, l’io e il tu, cielo e terra, materia e spirito, finito ed infinito, che, in definitiva, altro non è se non quello che ha cercato per tutta la vita.